The Shrouds - Le recensioni dei Cultisti
THE SHROUDS
di David Cronenberg
Le opinioni dei Cultisti
ATTENZIONE - LE RECENSIONI CONTENGONO SPOILER
The Shrouds
(L'opinione di Paolo Possanzini)
The Shrouds è la seconda occasione in cui Cronenberg si cimenta con la rappresentazione della morte sullo schermo (la prima fu il corto The death of David Cronenberg di alcuni anni fa).
Karsh (Vincent Cassel) è un uomo che da alcuni anni ha perso la moglie Becca, per un cancro che le ha segnato il corpo in profondità e dopo la morte non è stata cremata (lei è di origine ebraica e quindi la pratica è vietata). Suo marito Karsh, come capo della Gravetech ha realizzato dei sudari ( gli shrouds del titolo) che permettono ai vivi di restare in contatto con i cari estinti attraverso la tecnologia che riprende il processo di decomposizione.
Karsh ha anche già predisposto la propria sepoltura accanto a quella di Becca. La particolarità del cimitero in cui la moglie è stata sepolta è che si trova in un terreno in cui sorge anche un ristorante, creando così una commistione di elementi assai contrastanti.
La visione che traspare dal protagonista sulla morte è materialista, non esiste un dopo con un aldilà in cui le anime dei defunti si ritrovano a trascorrere l’eternità; la morte è, anzi, un processo a cui il corpo va incontro e che va accettato come tale. Il protagonista cerca di comprendere questa condizione non soltanto attraverso il voyeurismo, ma anche indossando il proprio sudario che tiene nel proprio appartamento, arriva a pensare che forse quei sudari non sono fatti né per i vivi né tanto meno per i morti.
Karsh, dopo una serie di atti vandalici al cimitero di Toronto, dove è sepolta Becca, si ritrova invischiato in una tela di complottismo e paranoia alimentata dalla sorella di Becca (entrambe interpretate da Diane Kruger, con un rimando a La donna che visse due volte di Hitchcock, dove Kim Novak interpreta due personaggi, così come l'avatar di IA Hunny, che ha le fattezze della moglie morta e che ha un ruolo fortemente uncanny) e Maury (Guy Pearce, qui molto ben calato nella parte), riguardo chi possa aver violato il cimitero di Toronto e aver hackerato le telecamere che riprendono i corpi nelle tombe per scopi di controllo dei vivi attraverso l’app Gravetech installata nei dispositivi.
Il carattere di thriller complottistico del film non è nuovo nella produzione del regista canadese, basti pensare a Videodrome, Existenz e al suo adattamento di Il pasto nudo di Burroughs. Come negli altri film di Cronenberg, il corpo ha un ruolo di primo piano, con il suo tocco e il suo calore: in particolare, nel rapporto sessuale e anche nella travagliata esperienza della malattia, che qui possiamo pensare in relazione a rapporto Eros/Thanatos, cone già analizzato in Crash.
Film molto denso di significati sul lutto, che non accontenterà tutti per il suo carattere enigmatico, relativamente alla parte thriller, ma che è capace di mettere lo spettatore, anche a distanza di tempo dalla visione, davanti a interrogativi non da poco. La narrazione ambigua, unita alla presenza di corpi morti, ai lettori di fantascienza non può che far venire in mente Ubik di Philip K. Dick.
The Shrouds
(L'opinione di Francesco Rosati)
Tutta l’opera cinematografica di David Cronenberg è attraversata da una costante imprescindibile: lo studio e l’esplorazione del corpo. Anche nei film in cui il corpo non rappresenta il fulcro narrativo, la sua presenza resta centrale. Accade, ad esempio, ne La promessa dell’assassino, dove i tatuaggi della mafia russa si imprimono sul corpo nudo di Viggo Mortensen come segni indelebili sia di identità che di potere; o ne La zona morta, in cui il cervello di Christopher Walken diventa uno strumento in grado di sondare il futuro. Tutto, nel cinema di Cronenberg, parla del corpo e delle sue metamorfosi più profonde.
The Shrouds non fa eccezione: scritto dopo la morte della moglie, nasce come un’elaborazione intima del lutto, trovando nella scrittura un possibile conforto. È il suo film più personale, forse anche il più controverso. Sicuramente quello che, più di tutti, lascia nel finale qualcosa di difficile da decifrare, un turbamento che resta addosso dal cinema fino alla propria casa.
Dopo la morte della moglie Becca, Karsh fonda la GraveTech, una società specializzata nella produzione di sudari tecnologici dotati di telecamere, che permettono ai familiari di osservare in diretta i corpi dei propri cari. Ancora una volta, il corpo torna al centro. Ma qui lo vediamo in decomposizione, nudo, esposto, sottratto a quella intimità e a quella distanza materiale che la morte impone. Cronenberg ci mette di fronte ad un voyeurismo maniacale, quello che poi è la sostanza della settima arte. Guardare, attraverso un’applicazione, il corpo deteriorato dei propri cari, mangiato dai vermi: un modo estremo di elaborare il lutto, cercando una presenza quasi fisica attraverso immagini digitali. La distanza materiale imposta dalla morte si assottiglia fino a scomparire, lasciando spazio a un’illusione di vicinanza.
Nei sogni di Karsh, questa distanza si dissolve del tutto. Ossessivamente, vede sua moglie: nuda, mutilata, ancora in lotta contro la malattia. Si muove ai piedi del letto, a volte dentro il letto stesso. Fragile, smarrita, avvolta dall’ambiguità e dalla sospensione (Becca sembra quasi vivere in un limbo) tipiche dell’onirico. Il lutto, nonostante tutto, non lo ha mai abbandonato. Ecco che l'immagine diventa tesi: studio dei corpi e del loro viaggio sulla terra fino al tragico ed inevitabile finale dove vengono avvolti in strani sudari.
È naturale, dunque, che la prima frase pronunciata nel film sia proprio grief is rotting your teeth tradotto Il dolore del lutto ti sta facendo marcire i denti. Perché, come già accadeva nel film precedente Crimes of the Future, anche qui il corpo e la sua evoluzione restano al centro del discorso. I denti marciscono come i corpi in vita, che affrontano duramente la malattia e la vecchiaia, così come dei corpi morti che vanno incontro alla decomposizione.
Cronenberg, ancora una volta, ci invita a vivere nel mondo attraverso la sua meravigliosa poetica sul corpo, e a trascendere l’immagine, donandoci un cinema autentico, quasi tattile, che finisce per parlare anche di sé (forse involontariamente). Un cinema che esplora il corpo — vivo o morto che sia — come ultimo luogo possibile di significato.
OPERE CITATE
Ubik di Philip K. Dick
Il pasto nudo di William S. Burroughs
Crash di J.G. Ballard
La zona morta di Stephen King
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