PAOLO DI ORAZIO - INTERVISTA ALLO SCRITTORE

PAOLO DI ORAZIO - INTERVISTA ALLO SCRITTORE

Il Gruppo Telegram “Lovecraft Italia” intervista Paolo Di Orazio, il più importante scrittore horror del panorama italiano. Talento poliedrico, PDO è stato sceneggiatore di fumetti – caporedattore della seminale rivista “Splatter” –; autore di libri volti a scardinare le ipocrisie del pubblico decoro – il suo “Primi Delitti” portò addirittura a una interrogazione parlamentare –; artista – illustratore e pittore –; musicista – batterista professionista, membro fondatore dei “Latte e i Suoi Derivati” –; ideatore di eventi – è una delle menti dietro “Oblivion - Fiera del libro, del fumetto e dell'irrazionale” –.
Nel 2025, ha pubblicato “Nuovi Delitti”, seconda parte della trilogia dei “bambini assassini” iniziata trent'anni prima. Insomma, ce n'è abbastanza per una bella intervista: rigorosamente, al sangue.


LI: Ciao, Paolo. La prima domanda è d’obbligo. Perché hai scelto l’orrore quale filo conduttore della tua produzione artistica, dalla letteratura al fumetto, dalla musica alla pittura?
PDO: Tutto inizia nel 1970 con “La bara di cristallo” un audioracconto del terrore che arrivò un giorno nella collezione dei 45 giri di mia madre da non so dove (nulla di più azzeccato poteva introdurre al meglio la storia della mia carriera). La prima volta che lo ascoltammo nel mangiadischi, le voci, le grida, i suoni spettrali suonati dai solchi mi fecero piangere di puro terrore. Mia madre e mia sorella si divertirono quindi per un po’ dei giorni seguenti a spaventarmi, a più riprese, inseguendomi per casa con quel Philips che suonava “La bara” per vedermi piangere. Inspiegabilmente, dopo i primi tre o quattro spaventi (ricordo tutto perché mi fu raccontato spesso negli anni successivi), dalla paura nacque in me il fascino per la copertina sinistra, illustrata come le pubblicazioni a fumetti e i poster cinematografici che avrei scoperto di lì a poco, e le atmosfere da ascolto; atmosfere che ritrovai poi nei film in bianco e nero alla tivù, innamorandomi perdutamente di quelle emozioni per me travolgenti; “necessarie”. Avevo quattro anni, sapevo già leggere – grazie alle letture serali di fiabe illustrate (da I Quindici) dalla voce melodiosa di mia madre –, così diressi le mie ricerche morbose di storie dell’orrore sui fumetti che già circolavano in casa, grazie agli acquisti di mia sorella: Kriminal, Satanik, Diabolik. All’interno di «Tiramolla» c’era Cattivik. Se i film venivano e andavano una sola volta dalla tivù, dal punto di vista cartaceo scoprivo l’horror un mondo sconfinato che faceva anche più paura così disegnato e raccontato, , e talvolta (sor)ridere; per me un piacere più intimo rispetto a quello che provavo guardando i film. Potevo goderne tutte le volte che volevo, mentre gli horror televisivi rappresentavano esperienze che non potevo replicare a volontà. Di contro, mi avvicinavo in maniera elementare al mistero della vita e della morte che, costellato di creature eccentriche – licantropi, vampiri, alieni e streghe, zombi –, incrementò la mia tendenza a fantasticare di abitatori del buio, fino a vederne nelle penombre notturne reali le mutevoli forme in movimento. Suggestioni, ovvio, che però perdurano tutt’ora (sorrido). Nel marzo 1970 uscì il numero 4 del mensile a fumetti «Horror». Quella lettura, oserei dire, apocalittica, determinò il mio pensiero, il mio animo eternamente malinconico che seminano e segnano il percorso di cui parleremo qui.

LI: Nei tuoi libri, oltre che a fenomenali storie di orrore puro, abbiamo ravvisato due componenti preminenti: la violenza estrema e il sarcasmo grottesco. Il modo in cui utilizzi l’ironia, riesce a precipitare il lettore in un vortice di follia dal quale non si riesce a fuggire, mentre il tono asettico impiegato per descrivere gli atti più tremendi, lungi dall’avvalorarli, sembra voler mettere il pubblico davanti agli aspetti più spiacevoli della realtà: non per trarne un semplice sfogo sadico – e, in fondo, reazionario – ma per innescare una ribellione catartica e libertaria.
Ci siamo fatti troppe pippe filosofiche, o qualcosa ci abbiamo azzeccato?
PDO: Assolutamente tutto azzeccato. Per me la rappresentazione della violenza è sacra, è primitiva e mostruosamente contemporanea, per quanto oggi una specie di droga tossica intellettiva; un anestetico del senso critico, più che altro. C’è chi non la tollera in narrativa e la trova un facile escamotage (utilizzandola come capo d’imputazione per battaglie di socio-ecoansia), chi al contrario ne accoglie, come giustamente dici, la sua qualità catartica di introspezione e processo. La violenza è ovunque. Verbale, fisica, psicologica, persino alimentare se pensiamo agli allevamenti intensivi; le eco-mostruosità, la manipolazione mediatica di massa. Ovunque c’è uomo c’è violenza. Evitare di rappresentarla artisticamente allo scopo di prevenirla è un insulto all’intelligenza. Nei miei libri, la violenza è proporzionale alla portata dello spettacolo che desidero mettere su pagina. Sarà forse per questo che i miei mostri risultano profondamente umani e, per molti, “simpatici”.

LI: Splatter, la rivista di fumetti più radicale del panorama italiano, è ancora oggi oggetto di culto. Cosa ricordi di quella stagione? Sei rimasto in contatto con qualcuno degli artisti e collaboratori coinvolti nel progetto?
PDO: Di quella stagione ricordo l’esperienza lavorativa più incredibile che potessi pensare di vivere da autore. Ho conosciuto e lavorato con i più grandi artisti crossgenerazionali (non esiste ma suona bene) del fumetto italiani e non. Penso a Gustavo Trigo, Jordi Bernet, Peppe Ferrandino, Silver, Bruno Brindisi e mi perdonino gli altri cento che non nomino per ragioni di spazio. La rivista chiuse “a sorpresa” mentre stavo scrivendo un serial per il grande Josè Ortiz, su suo invito al termine di un aperitivo con Francesco Coniglio: per dire che ho vissuto la Acme (casa editrice di Splatter) come se fossi entrato nella leggenda della Editoriale Corno, che si era presa cura della mia infanzia e adolescenza tra il 1970 e il ’78 a quintali di Super-Eroi e di meravigliosi horror a fumetti come Licantropus, Dracula; infine, «Il Corriere della Paura» e gli Eureka Pocket della serie “Terrore”, mio tempio assoluto e indiscusso di perdizione mentale e spirituale. La Acme (1989-91) è stata incisivamente formativa a livello di spirito e disciplina redazionali, cui ero arrivato già preparato da precedenti esperienze professionali grazie a Coniglio, sin dal suo laboratorio Phantasmagorie che frequentai nel 1984. Mi divertivo in un mondo frenetico e creativo, non ricordo una lite, un dissidio. Il più grande gruppo lavorativo cui ho preso parte, in cui nessuno veniva mai lasciato indietro. Avevo 23 anni, lavoravo sodo a giornata piena come redattore fisso e, dopo cena, scrivevo tutta la notte. Mentre traccio queste brevi (?) righe, mi sembra di ravanare tra le pieghe di un vecchio sogno. Ogni tanto incontro a un pranzo o a cena Marco Soldi, Paolo Altibrandi, creatore del logo Splatter; spesso mi capita di fare due chiacchiere con Vincenzo Perrone, Silver (co-editore Acme), più raramente Roberto Dal Pra’, ma ogni volta è sempre una fuga nei meravigliosi tempi che furono come se fosse passato soltanto un anno.


LI: Sempre all’epopea di Splatter è legato lo “scandalo” del tuo libro “Primi delitti”, che fu addirittura oggetto di un'interrogazione parlamentare. Spesso, si tende a dimenticare il perbenismo ipocrita che dal Riflusso degli anni ottanta sino all'epoca di Mani Pulite ammorbò l'Italia con brame censorie, dirette a tagliare le gambe delle manifestazioni artistiche più creative e indipendenti (vedasi anche, a tal proposito, la favolosa cronaca “Prima pagare, poi ricordare” di Filippo Scòzzari). Come affrontasti quel periodo?
PDO: Ero talmente concentrato sul lavoro, e paradossalmente incosciente, da affrontare l’onda censoria come la giusta ricompensa, la giusta risposta che potessi aspettarmi dal mondo esterno, anche se il famoso articolo su «L’espresso» mi suonò offensivo e clamorosamente, banalmente, incredibilmente sciocco (l’articolo, non il suo autore). Certo, al primo posto avevamo l’affetto e il supporto infuocato dei nostri lettori. Quella bomba di contestazione giornalistica suscitò un vantaggio per la rivista (e il mio Primi delitti) in termini di venduto. Per certi versi, l’idiozia del politically correct ha la sua utilità.

LI: Restando in tema, dopo più di trent’anni hai pubblicato “Nuovi delitti”. Stessi protagonisti, stesso ordine dei racconti e stessi titoli: ogni evento, si svolge esattamente tre decenni e un lustro dopo. Al di là dell’idea geniale, ho trovato questo seguito addirittura migliore e, davvero, una volta finita la lettura avrei voluto avere sottomano la terza parte, da divorare immediatamente. Quindi, la domanda da un milione di dollari è: mica ci farai aspettare qualche altra decade, per poter leggere “Delitti finali”?
PDO: No, no. Sono alle soglie del mio 60° compleanno, e vorrei chiudere la serie da vivo, possibilmente. Grazie per il responso su “Nuovi delitti”, mi fa enormemente piacere: non per vanità, ma è stato il mio titolo più sofferto e in un certo senso imbarazzante. Ora, non è che io voglia farmi apprezzare come scrittore tormentato, ma dopo aver messo giù tutti i racconti mi sono arenato in un turbine di dubbi, nel timore di “guastare” il predecessore, che è il mio titolo più amato. Stavo facendo la cosa giusta? Verrà interpretato come un meschino tentativo di autoriciclarmi e sfruttare e rinfrescare quel successo? Avrebbe dato l’effetto di un inutile remake? Sarebbe dovuto uscire due anni prima – sempre per D Editore – ma ho esitato, nonostante i responsi più che positivi della mia fidata squadra di lettura, nonché di Emmanuele Pilia, il boss della D che ha avuto una pazienza infinita dopo l’ottimo successo della sua riedizione di Primi Delitti.


LI: Ovviamente, tu hai scritto molti altri romanzi e raccolte di racconti. C’è qualcuno di loro cui tieni in modo particolare o che, per svariati motivi, non è stato apprezzato o compreso dal pubblico e dalla critica?
PDO: Non so dare una risposta precisa, poiché sono tutti diversi e speciali per me. Clive Barker, nell’edizione inglese antologica “Books of Blood – One to Three” (1998, a 14 anni dal suo esordio, quindi), spiega nella sua intro che quei racconti sono per lui “vecchie polaroid della persona che non sono più”. Quando lessi queste parole, restai un po’ amareggiato per lui. Poi, con le dovute proporzioni, ho iniziato ad ammettere a me stesso qualcosa di simile ogni volta che rileggo scritti ormai datati della mia carriera. Venendo alla risposta, divido in due la mia produzione: la prima parte, fino al 2009, in cui era escluso il mio attuale registro sarcastico; la seconda, dal 2011 con Vloody Mary, in cui entrano in scena un certo black humour e la città di Roma come location nuda e cruda in pianta stabile. Roma è ironica e grottesca di suo, non la si può prendere sul serio, ma mi aiuta oggi a focalizzare le storie, anche quelle più nebulose a livello di trama. Tirando le somme, della prima serie il mio titolo preferito è “Madre Mostro”: libro che ha risentito del clamore mediatico e di pubblico di “Primi delitti”, di cui è immediato successore. Ho scritto con l’adrenalina e l’urgenza di scatenare tutto il mio background horror che in “Primi delitti”, di stampo realistico, non ho inserito. Nella seconda serie, si snoda il filone Vanacura (in cinque romanzi) con le sue polpette condite da dèmoni, zombi e vampiri; e, in particolare, svetta nel mio cuore “Spaghetti Western Freakshow”, la mia summa dark-comedy-horror dove con autoironia totale metto assieme il mio antico amore per l’epica (L’Odissea), che si fonde al fumetto horror istrionico di Uncle Creepy più un azzardato incesto fra il western di Sergio Leone e il “Crash” di Cronenberg. Infine, i due scappati di casa, “Il diario elettrico” e “La saponificatrice”, fantascienza e nera, fuori quindi dalla mia caverna sovrannaturale, di cui non posso non andare orgoglioso. No, non riesco a trovare il mio preferito… Ma anche “Nuovi delitti” mi rende molto felice: sono riuscito nell’intento più difficile. Okay, ho dato la risposta più incasinata di quanto volessi. Pardòn, vanità di padre.

LI: Diversi progetti antologici continuano a vedere la tua partecipazione, che si tratti di piccole realtà indipendenti o di case editrici affermate. Ti piace prendere parte a progetti collettivi?
PDO: Sì, molto. Non per spirito competitivo. Sono cresciuto professionalmente in lavori di gruppo e credo molto nella forza di un intento comune.

LI: Come si può facilmente dedurre dalla nostra denominazione, Strani Aeoni - Lovecraft Italia, non puoi esimerti dal dirci la tua sul Sognatore di Providence.
PDO: Lovecraft per me è il dogma perfetto della fantascienza, dell’orrore, dell’horror, di tutto ciò che ho scoperto e amato fra fumetti, tivù e cinema; nonché, il simbolo di cosa vorrei fare, essere per evolvere come autore. La sua scrittura è una scuola suddivisa in opere, il manifesto a meta-puntate del fantastico, la purezza assoluta del genere, il colore indefinibile dell’ignoto, il padre divino di tutto. Ma non devo spiegare certamente in questa sede che continuiamo a trovare il Sommo e le sue idee in centinaia di lavori dal Novecento in poi. Lui stesso è il Grande Antico della letteratura moderna di stampo fantastico.

LI: Quali autori e libri sono stati fondamentali nella tua formazione di lettore e scrittore, tanto nell’ambito horror/weird quanto nella letteratura ufficiale? Cosa ti cattura nel tempo presente?
PDO: Opere fondamentali. Visto che siamo a casa di Howard, inizio da “I topi nel muro”, “Aria Fredda”, “L’abitatore del buio” in cui riconosco i vicoli, la cattedrale e gli scorci di Palestrina (provincia di Roma), e il bellissimo “La ricorrenza”. Poi, in ordine sparso, i romanzi Rosemary’s Baby, L’Inquilino del terzo piano, Christine la macchina infernale, Infernalia, Ectoplasm, Sudario (Libri di sangue 1-3), Gioco dannato, tutto King fino a Misery), La ragazza della porta accanto, L’esorcista, L’inquilino del terzo piano. Autori: Edgar Allan Poe, King, Barker, Jack Ketchum, Guy de Maupassant, Dino Buzzati. Nella letteratura ufficiale, Giulio Cesare, Pirandello, Manzoni, Leopardi, Foscolo, Dante, D’Annunzio, Oliver Sacks, Maxence Fermine, Woody Allen. Terrei d’occhio Jason Rekulak. Nel tempo presente mi sto appassionando ai documentari Netflix e al setaccio sui vari streaming di vecchi e nuovi horror. Spesso e volentieri brutti. Molto meglio i documentari, per saziare la mia sete di realismo criminale. E qualche puntata di South Park.

LI: E per quanto riguarda i fumetti, i film e i serial, la musica? Cosa ritieni imprescindibile e cosa segui oggi con interesse?
PDO: Oggi non seguo qualcosa in particolare, ma ritengo imprescindibili, tra le serie che ho apprezzato io, “Black Mirror”, “Conjuring” e “Annabelle”, “American Horror Story – Freak Show”, tutto “Alien”, nonché i biopic come “Ted Bundy” e “Jeffrey Dahmer”. Per i neofiti dell’horror cinematografico che hanno appena varcato questa soglia, tutto David Cronenberg, Mario e Lamberto Bava, Wes Craven, John Carpenter, Dario Argento, Lucio Fulci, Hitchcock, David Lynch (anche se non è accademicamente relegabile all’horror classico). Per i fumetti, resto ancorato all’esplorazione del vintage se vogliamo conoscere i fondamenti della narrazione anni ’60-’70, e li ho nominati nelle risposte precedenti; per quanto riguarda il moderno, “Hellboy” di Mike Mignola, e le assurde graphic novel di Miguel Angel Martin, cui non posso non aggiungere l’illustrazione onirica di Thomas Ott.

LI: Raramente ti sentiamo parlare di fantascienza e fantasy, giallo e noir, perciò siamo curiosi di conoscere la tua opinione in merito. Sono generi che apprezzi o non sono la tua portata prediletta?
PDO: Vero, non ne parlo molto perché frequento queste tre aree in modo disordinato e discontinuo. In ogni caso, mi interessano tutte, anche se il giallo non contiene l’elemento sovrannaturale a me caro. Un bel thriller che ha lasciato il segno nella mia libreria è “Non dire una parola” di Andrew Klavan, seguito a ruota da “Hannibal” di Thomas Harris e “Ragazze scomparse” di Brian Freeman. Di queste zone narrative sono però più consumatore di pellicole. Nella sterminata filmografia degli anni ’70, dal “Maratoneta” a “Spazio 1999” a “Il tenente Colombo” non mi sono posto limiti di genere.
“Per quanto riguarda i miei gusti musicali, così come per i fumetti, ho un’adorazione per il rock, l’hard rock e l’elettronica assorbiti sempre durante l’infanzia. Nella nostra famiglia, oltre a libri e fumetti, i dischi erano il pasto quotidiano. Con una sorella più grande patita di musica, nel mio Dna troviamo Deep Purple, Genesis, Led Zeppelin, Pink FLoyd, Santana, Peter Gabriel, Van der Graaf Generator, David Bowie, la Discomusic. Poi ho scoperto per conto mio i KISS, Van Halen, tutta la NWOBHM, passando poi per la new wave, il dark, le colonne sonore, il pop inglese, il nu metal, il grunge. Consiglio chiaramente un ascolto orizzontale, senza porsi limiti. di mode e di tempo. Essendo figlio dei favolosi ’60, adoro ripescare la musica di quei tempi, godermi l’ascolto imperfetto, la presenza vivida dei musicisti con il loro sudore in sala d’incisione."


LI: In Italia, la cultura horror non è mai entrata nel mainstream e, anzi, continua a rimanere di nicchia quando non addirittura divisiva. Come mai?
PDO: In sintesi: perché non passa in tivù. La televisione di Stato decide tutto. Di conseguenza, il mainstream è definito da ciò che è proponibile televisivamente. Credo esista ancora una rubrica di libri da cinque minuti settimanali dedicati a libri ben selezionati: il più outsider tra quelli che ho visto è stato Zerocalcare. Ciò che è proponibile televisivamente deve essere politicamente corretto all’estremo, soporifero, quasi lobotomizzante. L’horror darebbe uno shock, accenderebbe l’immaginario per il grosso della popolazione italiana. Nel mio romanzo “Il morso dello sciacallo” ho teorizzato tutto, ben prima che andassero di moda i complottisti, ma preferisco non dare scandalo attraverso il vostro rispettabile canale e prendermi ogni responsabilità direttamente nelle pagine scritte. L’horror, pertanto, è divisivo perché parla sporco, tocca i punti vulnerabili dell’animo umano e non tutti sono in grado di stimolare le proprie paure e virarle a piacere. Non tutti sono stati svezzati a pane, latte, cioccolata e fiabe spaventose.

LI: Tornando alla tua attività di scrittore, sei più un pianificatore, oppure ti lasci guidare dall’ispirazione?
PDO: Nel tempo, sono cambiato. Prima andavo a braccio, lasciandomi guidare dalla corrente. Da Vloody Mary in poi, ho iniziato a pianificare tutto. È un modo nuovo di comporre il puzzle di una storia, prima di mettermi a scrivere, magari evito pasticci e di buttare cinquanta, cento cartelle. Che sta diventando fisicamente e mentalmente faticoso scrivere, tuttavia più intenso e coinvolgente.

LI: Come vedi l’evoluzione della letteratura di genere, specialmente horror e weird, nel cosiddetto Belpaese? È destinata a rimanere un fenomeno locale o avrebbe tutte le carte in regola per affermarsi al di fuori dei nostri confini?
PDO: In Italia, come detto prima, finché la tivù di Stato non concede aperture, resterà underground. Al contrario, all’estero più d’un autore con le carte in regola riesce a pubblicare in inglese e varie lingue. L’evoluzione weird horror sta procedendo senza particolari difficoltà grazie a un numero crescente di autori e autrici di livello. Un ottimo esempio è “Teratocene”, un’antologia di autori vari targata Zona 42 e pubblicata a luglio, per la curatela di firme grosse come Lucio Besana, Gigi Musolino e Andrea Gibertoni.

LI: Negli ultimi anni l’editoria self published ha offerto molte possibilità agli autori emergenti; al tempo stesso, sono aumentate le problematiche riguardanti la cura e l'editing in tale modalità. Alcune piccole realtà editoriali indipendenti stanno sperimentando una forma ibrida di pubblicazione e distribuzione. Molti tuoi libri sono stampati da case editrici con tutti i crismi, ma di recente hai annunciato la volontà di provare la strada del self publishing, per rendere nuovamente disponibili alcune opere fuori catalogo. Che opinione hai riguardo questi mutamenti nel panorama editoriale?
PDO: Mettersi in proprio, vista la tecnologia che non esisteva fino a pochi anni fa, può essere una strada dignitosa che non esclude – a mio avviso – il percorso “alternativo” verso l’editoria su territorio. Il limite enorme del self è che si tratta di ficcarsi in testa, prima ancora di mettersi a buttare giù romanzi da 700 cartelle, che la scrittura è un lavoro, un sacrificio di tempo e spazi vitali, e non uno sfizio, e che tutto il nostro Necronomicon deve trasformarsi nell’oggetto libro. Se la curatela del libro è scadente, il lettore oggi molto esigente se ne accorge e lo restituisce, viene rimborsato e può scriverne una recensione muriatica senza dover uscire di casa. Chi comprerebbe un’automobile scassata? Nessuno qui è Arnie Cunningham. Vero, un libro ha costi irrisori, però è un bene prezioso per molti, è un rapporto intimo con l’autore e il proprio piacere (quanti hanno condannato ferocemente il loro beniamino Neil Gaiman sentendosi traditi dalla sua figura e dalle emozioni che ha elargito coi propri romanzi?). È un discorso cinico che penalizza i librai ma relativamente, visto che l’horror da scaffale ospita solo nomi stranieri attorno al pianeta Stephen King. Credo però che qualcosa di grosso si stia muovendo. Sensazioni, nulla di preciso, ma che alzeranno il valore della scrittura, anzi dell’editoria autarchica. Io adoro impaginare libri, sistemare il testo affinché ogni pagina sia perfetta. La mia esperienza redazionale me lo consente, ed è così che la scrittura, nonostante il futuro sia in casa nostra, fra algoritmi e macchine intelligenti, fa una sorta di passo indietro costretta a puntare sulla qualità massima (copertina, grafica, storia, editing) in un mondo di “artigiani” sicuramente in espansione e portando la competitività sempre più agguerrita. Prima degli smartphone, non tutti sapevano scattare belle foto. Coi libri sarà lo stesso. L’editoria su larga scala ora punta il target su chi ha più visibilità social. Non a caso, gli autori dominanti sono sempre stati volti della politica, dello sport e dello spettacolo (già nel lontano 1990, un grande editore mi rifiutò con l’elegante formula “pubblichiamo solo gente che va in televisione”). La televisione di oggi in mano a ogni cittadino del pianeta è il mondo virtuale, sovraffollato per ovvie ragioni ma da cui emergono gli artisti con più followers (possibilmente non comprati). Pubblicano libri anche “utenti” che non hanno nulla a che fare con la narrativa se portano all’editore big un portafoglio contatti di diecimila nomi. È una realtà triste? Direi di no. Tutti invecchiamo e il mondo ci viene appresso mentre si modifica.

LI: Parlando di letteratura, non possiamo non menzionare Oblivion, la fiera intitolata all'irrazionale che tu hai contribuito a organizzare a Roma, presso La Città della Cultura, zona Testaccio.
Com’è nata l’idea? Cosa ricorderai con più piacere della prima edizione? Ci sarà un secondo atto?
PDO: L’idea nasce durante uno scambio di commenti a un post dedicato all’importanza di eventi librari milanesi consolidati quali “Stranimondi” e “Marginalia” (per chi non li conoscesse, entrambi festival da due giorni dedicati al nostro tema preferito, con editori e autori a disposizione del pubblico). Qualcuno si è chiesto: “Perché non fare qualcosa di simile a Roma?”. Il dilemma ha polarizzato a velocità innaturale quattro fantastici briganti del fantastico: Emmanuele Pilia (D Editore), Edoardo Rizzoli (ex libraio e direttore della rivista letteraria Fanatic Magazine), Claudio Kulesko (autore e curatore per D Editore della collana Intermundia) e me. Abbiamo costituito l’associazione culturale Oblivion e iniziato a mettere in piedi l’operazione omonima, da me così battezzata (in realtà il nome l’ha pronunciato Claudio e io ho insistito per tenerlo). Ricordo un’ondata di affetto da parte dei 5000 partecipanti, e la gioia dei 45 editori presenti. Un’esperienza per cui non ho dormito sonni tranquilli fino alle ore 12 della prima giornata, quando abbiamo capito dall’affluenza no stop che non avremmo fatto flop.


LI: Rimanendo in tema fiere, tu sei spesso presente agli eventi dedicati alla letteratura di genere. Noi stessi ci conoscemmo a Stranimondi 2024, per tramite del comune amico CB. Per te è importante partecipare a quel tipo di rassegne e stabilire un contatto col pubblico?
PDO: CB… intendi Clive Barker? Scherzo. Per me è maledettamente importante partecipare alle rassegne. Ne nascono progetti, si incontrano amici vecchi e nuovi ma troppo lontani per vedersi spesso. È una preziosa occasione per lo scambio di importanti stimoli con il pubblico. Mi piace socializzare, mi piace ascoltare, mi piace stare insieme, mi piace che i miei conoscenti facciano amicizia fra loro, mi piace vedere come i rapporti si amplino e l’orizzonte del fantastico si distenda a perdita d’occhio. La nostra area editoriale, così difficile da sostenere, comunque resiste alle intemperie della critica dei detrattori. Se dalle denunce degli anni ’70 a oggi, riesce a sopravvivere alla cesura woke, allora l’horror non cesserà di essere una cultura tradizionale anche per l’Italia.

LI: Di recente, hai presentato il tuo libro “La saponificatrice” rompendo il classico schema “Discorso – Domande – Risposte”. Al contrario, hai allestito uno spettacolo totale, dove hanno trovato spazio la lettura ad alta voce, la recitazione e tu stesso hai suonato dal vivo la batteria su basi musicali. Forse non è un’esperienza ripetibile in ogni libreria, ma è un passo avanti per scardinare un’idea stantia del rapporto fra autore e fruitore. Francamente, ci piacerebbe vedere molti più incontri di questo tipo. Potrebbe essere una direzione da seguire?
PDO: Credo sia interessante dare qualcosa di più a chi prende l’impegno di uscire di casa o venire direttamente dal lavoro per ascoltarti (lo disse 40 anni fa Paul Stanley dei KISS a proposito dei loro apparati scenici). Certo, un minishow diventa un investimento importante che richiede lavoro di squadra, e il libro diventa come il CD della band che ha appena suonato dal vivo: il pubblico si porta a casa un pezzo di quell’esperienza da tenere con sé. Certo, per pagare il lavoro di regia ed esecuzione tecnica e artistica sarebbe necessario vendere almeno 50 copie di un libro. Se però le copie da portare al banchetto dello show vanno acquistate dall’editore, ecco che il senso del ricavo rende l’esibizione un puro momento di volontariato. Mi si perdonino i conti da Marchese del Grillo, ma non sarebbe male trovare il modo di oltrepassare o perlomeno variare la modalità della conferenza sul libro per come la conosciamo.

LI: Tu sei un batterista professionista e hai tenuto migliaia di concerti, letteralmente, con il gruppo “Latte e i Suoi Derivati”, assieme a quello che sarebbe divenuto il duo comico “Lillo & Greg” (tra l'altro, anch'essi fumettisti). Non hai mai pensato di darti anche tu allo spettacolo e/o alla televisione?
PDO: Nel momento topico della carriera con gli LSD ho ricevuto due proposte televisive importanti come “attore”, pur non avendone la minima velleità, ma solo per la mia somiglianza con questo e quello. Da parte di un regista prima, e poi da uno storico conduttore televisivo. Forse ho sbagliato a non accettare, avrei potuto approfittare per un rilancio atomico della mia carriera horror. O forse l’avrei definitivamente distrutta diventando una sorta di buffo pupazzo nazionale (perché è quello che in buona fede questi due tycoon mi prospettavano). Sarei diventato ricco e popolare e, forse, come il compianto Giorgio Faletti, avrei a sorpresa sfoderato un best seller con un grande editore dopo una canzone a Sanremo. What if? Comunque, no, grazie. Orgoglioso di non essere sceso a compromessi. Non sono capace, tra l’altro, di recitare neanche con un fucile puntato alla testa o posseduto dallo spirito di Jack Lemmon. Per questo tipo di arte serve un talento innato come nel caso, appunto, dei miei amici geniali Lillo & Greg. Va bene così. Sono felice di essere tornato nel mondo editoriale con le mie carte in regola e la forza di guardarmi allo specchio ogni mattina senza rimorsi e rimpianti.


LI: Abbiamo discusso molto del tuo passato e presente artistico, perciò è giunto il momento di guardare avanti. Quali progetti hai in serbo per il futuro?
PDO: Nel futuro immediato, quattro libri, di cui due saggi, un illustrato e “Delitti finali”. Cui si accodano il “From Beyond – scrivere una storia lovecraftiana" (non potevo non annunciarlo qui) a partire dal 6 novembre, legato al progetto più ampio PDOpress, messo in piedi con la mia partner in crime Alessandra Altieri, che non solo prevede (per ora) un massiccio lavoro di ripubblicazione self dei miei romanzi fuori catalogo, ma anche la messa in libro degli elaborati del corso FB, a caccia di nuove firme.

LI: Prima di salutarci… Dicci qualcosa sul tuo lavoro che nessuno sa!
PDO: Il mio lavoro richiede solitudine, introspezione, egoismo, tendenza alla fuga dalla realtà. E una sana dose di masochismo.


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